Rebranding post-crisi: gli errori da evitare
Rebranding post-crisi: gli errori da evitare C’è un momento esatto in cui vale la pena
Non serve guardare uno schermo per sapere chi sta parlando. Basta mezzo secondo, una sequenza di appena tre note, una breve vibrazione acustica: il cervello anticipa l’immagine, la collega a un’esperienza, e tutto si attiva. Un’identità sonora può fare quello che nessun altro elemento del brand riesce a fare, ovvero entrare in scena prima ancora che lo spettatore abbia deciso di prestare attenzione. Ed in effetti questo è esattamente quello che fa Il sonic branding, o logo audio, diventato uno degli asset più strategici nella costruzione di brand che si fanno ricordare.
Cosa rende però questa “modalità di fare brand identity” tanto efficace? Probabilmente non c’è una sola risposta, ma di certo il suono ancora oggi rappresenta uno dei linguaggi più pervasivi e riconoscibili. L’audio entra direttamente, senza chiedere permesso. È ubiquo, è emozionale, è in grado di imprimersi nella memoria con una forza superiore. Non è un caso se le neuroscienze confermano che il riconoscimento uditivo è più rapido e persistente di quello visivo. Attenzione, non si tratta di aggiungere un jingle a una pubblicità, ma di progettare una grammatica sonora unica, coerente, riconoscibile in ogni touchpoint della marca: ogni volta che il brand “emette un suono”, quel suono deve essere parte della sua identità, deve avere un tono, una durata, un’emozione di riferimento.
Adesso qui si apre il cuore del problema: la maggior parte delle aziende digitali non ha ancora un’identità sonora strutturata, perdendo l’occasione di costruire familiarità emotiva con l’utente. Facciamo un esempio lampante. Avete presente quel celeberrimo “tudum” all’apertura di Netflix? Sono esattamente due note che esulano dall’essere semplice suono per farsi una promessa narrativa, una soglia tra il quotidiano e l’intrattenimento. È breve, incisivo, riconoscibile in tutto il mondo. Con buone probabilità, senza quel suono, il brand sembrerebbe muto, o addirittura diverso.
Per i brand digitali nativi (che siano startup, piattaforme, app, e-commerce e via discorrendo) questo aspetto è ancora più cruciale, per il fatto che il contatto con il pubblico di riferimento avviene sempre più spesso in assenza di un volto, di una voce umana, di un ambiente fisico.
È il suono a diventare prossimità. Una notifica sonora coerente con la brand personality può migliorare l’esperienza utente, ridurre l’ansia, generare una connessione affettiva. Al contrario, un suono troppo invadente, o non coerente con l’identità, può produrre fastidio, frizione, alienazione. Così il suono può evocare l’intera esperienza prima che inizi l’interazione stessa. La competenza richiesta a fare “identità di brand” attraverso il suono non è solo di carattere musicale. Serve piuttosto una visione strategica che unisca identità, percezione, comportamento e ambiente. O ancora meglio, serve chiedersi: “che ruolo ha il mio brand nella vita delle persone? Quale tono di voce mi rappresenta o che relazione instaurare?”. Un altro elemento chiave è che il logo audio non deve essere una meteora: deve tornare, in forme diverse ma riconoscibili, lungo tutto il journey del cliente, come filo invisibile ma udibile che guida l’utente e rinforza la relazione. Ogni volta che quel suono torna, il cervello rinforza l’associazione emotiva. E così, nel tempo, il brand si sedimenta. Non solo nella testa, ma nell’esperienza percettiva profonda dell’utente.
Infine, c’è una dimensione ancora più sottile ma decisiva: l’ethos sonoro. Un brand che parla attraverso il suono comunica valori, intenzioni, attitudine. Un suono può essere autoritario, inclusivo, ironico, evocativo. Può rassicurare o stimolare. Può suggerire efficienza o lentezza, calore o tecnologia, empatia o rigore. Il sonic branding non è un’aggiunta alla brand identity: è un suo linguaggio nativo. E come ogni linguaggio, vorrà dire prendersi cura del modo in cui si viene ricordati. E la memoria, si sa, ha una colonna sonora tutta sua.
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Come ampiamente anticipato quando si tratta di sonic branding, si tratta di costruire un paesaggio sonoro coerente con i valori, la personalità e le intenzioni della marca. Il punto di partenza non è il brand positioning. Qual è il tratto essenziale del marchio? Che tipo di emozione vuole trasmettere? È un brand giovane, ironico, energico? Oppure solido, istituzionale, sobrio? La risposta a queste domande determina la sua narrazione in forma acustica. E come ogni racconto, deve essere coerente con il protagonista.
Il secondo elemento da considerare è la durata e la sintesi. Un logo audio efficace ha un’impronta riconoscibile entro i primi 2–3 secondi. È un’identità compressa, quasi un haiku sonoro. Una brevità che, però, non implica banalità, ma una millimetrica progettazione, nota dopo nota. Un terzo pilastro del processo è la modularità poiché il brand sonoro efficace non si esaurisce nel logo audio, ma deve essere fluido e prevedere declinazioni flessibili, adattabili a contesti e touchpoint differenti: una versione più estesa per i video istituzionali, una riduzione per le notifiche app, una variazione più ampia per gli eventi o per gli spot. Insomma, deve saper giocare con lo stesso vocabolario acustico in diversi registri, proprio come si farebbe con un visual kit. Così come un logo visivo ha versioni verticali, orizzontali, monocromatiche o animate, anche il linguaggio sonoro deve sapersi adattare senza perdere riconoscibilità.
Altro passaggio fondamentale è la co-creazione tra strategia e sound design. Bisogna che ci sia un dialogo continuo e costante tra chi conosce il brand e chi sa trasformarlo in frequenze. Serve un team misto: strategist, brand manager, music designer, copywriter. Perché anche il suono contiene significati, suggestioni, memorie. Ma anche la user experience è parte integrante del disegno e anche la più delicata e breve nota ha bisogno di integrarsi senza disturbare, accendendo attenzione senza causare distanza emotiva. O peggio, fastidio.
La progettazione dell’identità sonora deve includere una fase di test, ascolto e validazione, non basta certo che il suono piaccia al board o al team creativo: deve essere compreso e memorizzato dal pubblico target, aumentare la sua fluidità cognitiva, l’appeal sonoro della sua memorabilità. Ecco perché è essenziale testare il sonic brand in scenari reali, con utenti veri, prima di approvarlo. E la stessa efficacia non si misura solo in emozione, ma anche in funzionalità, adattabilità, feedback, realizzando un ecosistema acustico che rappresenti l’anima del brand.
Se un’immagine vale più di mille parole, un suono, nel branding, può valere molto di più di uno slogan. E non è un’esagerazione poetica. È ciò che dicono i dati, le neuroscienze, le metriche di engagement. Il sonic branding di fatto non è solo un arricchimento estetico ma in maniera funzionale sa agire sulla riconoscibilità del marchio, sulla retention, sull’affinità emotiva, sulla percezione del valore. Il suono può fare ciò che la vista da sola non riesce più a garantire: spazio, profondità, connessione. Uno dei primi vantaggi tangibili riguarda la memorizzazione del brand: il logo audio, se ripetuto con coerenza nei vari touchpoint, entra nella memoria implicita dell’utente, senza bisogno di essere decifrato, viene evocato automaticamente. Ma l’aspetto più interessante è che il tempo medio di riconoscimento di un brand tramite suono è inferiore a quello visivo. Dove un logo può richiedere attenzione e decodifica, un suono agisce con immediatezza. È un accesso diretto alla memoria.
E questa immediatezza si traduce in un secondo vantaggio fondamentale: una riduzione del tempo di associazione emozionale. L’ascolto di un logo audio può evocare immediatamente un contesto, un sentimento, un’attesa positiva. E quindi si attivano anche ricordi, una relazione, un riflesso emotivo, collegati a una sensazione precisa, che può essere sicurezza, divertimento, familiarità. Questo livello di attivazione affettiva è profondamente prezioso in ottica di fedeltà, engagement e valore percepito. Il terzo beneficio è legato alla coerenza cross-canale, in quanto il suono che è l’elemento più facilmente replicabile e meno dipendente dal formato, mantiene una fisionomia costante. Questo permette di creare un filo sonoro continuo, guidando l’utente da un contesto all’altro (anche in caso di mancata soluzione di continuità: sito web; app; social network, piattaforme esterne). Il risultato è una maggiore coesione narrativa del brand, percepita anche da chi non saprebbe spiegarla a parole.
La familiarità acustica diventa presenza implicita, orientamento emotivo. Ed è proprio su questa continuità invisibile che si gioca la fidelizzazione. Un altro effetto misurabile del sonic branding è quello sulla customer experience, applicabile ad alcune interfacce digitali come nel caso di siti e-commerce. In questo esempio appena fatto, suoni ben progettati che confermano un processo di vendita, se ricondotti in maniera congrua e coerente con il brand, possono ottenere tassi più alti di completamento, migliori valutazioni UX, riduzione dell’abbandono del carrello. Non è un caso: il suono guida, accompagna, rassicura. Può segnalare un passaggio, una conferma, un errore, senza richiedere lettura o attenzione visiva. In questo modo, semplifica l’interazione e riduce lo stress cognitivo.
A tutto questo si aggiunge la dimensione valoriale. Un’identità sonora ben progettata comunica autenticità, visione, consapevolezza del tempo in cui si vive. Un marchio che ha una voce, una coerenza narrativa, un suono suo (si pensi a Siri, Alexa, ai podcast, all’audio content), ottiene un canale emotivo attivo, una memoria diffusa, una voce con cui il brand continua a parlare, anche quando nessuno sta guardando.
Lo abbiamo detto, ma lo ribadiamo, il sonic branding non va confuso con un jingle improvvisato, né un accompagnamento musicale generico: è una dichiarazione identitaria strutturata, che dev’essere coerente con la storia del brand, con la sua personalità verbale e visiva, con il tono, con il ritmo e perfino con il tempo d’ascolto del suo pubblico. È un progetto tanto creativo quanto strategico. E, come ogni elemento fondante di una marca, va progettato in armonia con tutto l’insieme, non come orpello finale o dettaglio accessorio.
Come ogni trasformazione strategica, anche il percorso verso un sonic branding efficace richiede competenze trasversali, conoscenza approfondita del brand, padronanza delle tecniche di sound design, visione narrativa e precisione nella declinazione operativa. Una agenzia di comunicazione con competenze specifiche in brand identity non si limita a “produrre un suono”, ma accompagna il brand nella definizione di una voce coerente, sensibile, riconoscibile, e lo aiuta a collocare quell’identità sonora all’interno di una strategia narrativa ampia, capace di abbracciare il piano visivo, testuale, ed esperienziale. Un’agenzia efficace analizza i punti di contatto e soprattutto custodisce la coerenza sonora nel tempo. Perché un logo audio non nasce per una campagna, ma per una relazione che va nutrita, aggiornata, interpretata, proprio come accade con le parole o le immagini. Perché il suono di un brand non è solo ciò che accompagna. È soprattutto ciò che precede, resta, ritorna.
Viviamo in un contesto ormai iper digitalizzato e connesso: basta osservare i display dei nostri smarphone, per vedere tutte quelle iconcine colorate, espressione di una pluralità di canali, piattaforme e vettori di presenza online attraverso cui ormai ci muoviamo quotidianamente. Questa
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