Rebranding post-crisi: gli errori da evitare
Rebranding post-crisi: gli errori da evitare C’è un momento esatto in cui vale la pena
E se ti dicessero che il modo in cui il tuo brand ha raccolto dati finora è destinato a sparire? Non lentamente, non gradualmente. Ma con un taglio netto, definitivo. Cosa faresti? Meglio pensarci seriamente, perché è proprio ciò che sta accadendo. L’addio ai cookie di terze parti è una realtà, un vero spartiacque per il marketing contemporaneo, una censura che obbliga brand, agenzie e piattaforme a interrogarsi su una nuova parola d’ordine: fiducia.
Per anni abbiamo costruito le nostre strategie digitali sull’idea che si potesse “seguire l’utente” ovunque andasse. E lo abbiamo fatto, ma ora, con l’inasprimento delle normative sulla privacy, e con una nuova consapevolezza etica da parte degli utenti, tutto sta cambiando. Non si tratta di un semplice problema tecnologico, ma di una questione culturale: il modo in cui ci relazioniamo alle persone online dev’essere riscritto da zero. Interamente. Ecco perché oggi si parla di privacy-first marketing e non certo come tendenza, non come escamotage per “aggirare” le restrizioni, ma come nuova postura strategica. È il momento in cui il rispetto per l’utente diventa leva competitiva, in cui il consenso non è solo una finestra da cliccare, ma un patto di trasparenza e valore reciproco. Le aziende che sapranno costruire fiducia saranno le sole a sopravvivere a questo cambio di paradigma.
Come fare marketing quando non possiamo più “intercettare” i comportamenti? Come costruire una relazione digitale senza invadere, senza profilare in modo opaco, senza quel flusso continuo di dati che fino a ieri consideravamo vitale? Un nuovo spazio, probabilmente più scomodo, ma fertile, che getta le basi su di un futuro del marketing etico e ambientato nel luogo della conversazione. Ad oggi chi ha compreso davvero la portata del cambiamento ha iniziato a reinventare l’ecosistema della comunicazione, investendo su alcune tipologie di dati, su strategie di contenuto più profonde, su ambienti proprietari dove costruire valore senza dipendere da intermediari. Non è un caso se le aziende che oggi parlano la lingua del rispetto della privacy sono anche quelle che stanno costruendo comunità più solide, pubblici più fedeli, reputation più forti. La vera differenza sostanziale? Non l’azienda che ti conosce meglio, ma quella che sa ascoltare meglio. In questa dimensione allora il privacy-first marketing è esattamente questo: un marketing che parte dall’altro, che mette al centro la volontà dell’utente, che sa rinunciare a un’informazione per guadagnare un rapporto.
La scomparsa dei cookie di terze parti, allora, non è una condanna. È un invito a crescere, a ripensare ogni touchpoint, ogni call-to-action, ogni KPI, per fare spazio a una comunicazione più etica, sposando possibilmente una narrazione più autentica, utente-centrica. È il momento, cioè, di tornare a fare branding vero, relazionale, umano.
La fiducia non si compra con un click e questa verità diventa il principio operativo da cui partire. Una strategia privacy-first non si accontenta di chiedere il consenso all’utente, ma si preoccupa di meritarselo ogni giorno. È una strategia che restituisce centralità all’essere umano dietro lo schermo, e che ridefinisce, una volta per tutte proprio per questo, il significato stesso di “dato” trasformandolo in un atto di fiducia consapevole. Quando un utente lascia la propria mail, accetta di essere iscritto a una newsletter, partecipa a un questionario, risponde a un messaggio WhatsApp o si registra a un evento online, sta facendo una scelta. Sta dicendo: “Mi fido di te”. E questa fiducia è la materia prima più preziosa che un brand possa avere.
Una strategia privacy-first parte da qui: dalla capacità di raccogliere dati di prima parte, cioè forniti direttamente dagli utenti, attraverso esperienze di valore. Così il sito web non è più solo una vetrina, ma uno spazio aperto e pronto al dialogo, o il form di contatto che non è più una scorciatoia per profilare, ma un’occasione di confronto reale. Dietro ogni touchpoint deve esserci una domanda etica circa l’allineamento su ciò che si sta offrendo, rispetto a ciò che si sta chiedendo.
In assenza di cookie di terze parti, i brand devono lavorare sulla qualità delle interazioni, non sulla quantità dei tracciamenti e questo significa investire di più su contenuti originali, newsletter realmente curate, esperienze digitali personalizzate, supporti e canali in cui il contatto con l’utente diventa una adesione autentica, con un valore nettamente superiore, perché è voluto, rilevante, attivo. Non basta dire “non usiamo cookie di terze parti”, bisogna saper costruire ambienti digitali in grado di leggere, elaborare e utilizzare i dati di prima parte nel rispetto della privacy, attraverso CRM integrati, Customer Data Platform (CDP), automazioni intelligenti che partano dal consenso e non dall’opacità. Un’occasione che mette alla prova la maturità digitale dei brand, riscoprendo strumenti antichi e attualissimi come l’ascolto, la community, la relazione continuativa.
Detto diversamente? Una newsletter ben scritta, ad esempio, non è meno potente di un retargeting ed anzi può diventare il luogo privilegiato per conoscere meglio il proprio pubblico, senza violare nulla, senza spiare nessuno, con il coraggio di costruire una nuova grammatica della fiducia. Il marketing non è più solo “questione di performance”, ma reputazione, non è più solo targeting, ma valore condiviso.Si costruisce così il luogo in cui i dati diventano racconto, relazione, rilevanza. Una questione di fiducia!
Alcune aziende hanno iniziato a progettare customer journey completamente privi di cookie esterni, facendo leva su webinar, eventi in diretta, demo a invito e contenuti whitepaper per creare esperienze di contatto autentiche e dirette. La raccolta dei dati avviene in un clima di reciprocità: ti offro sapere, competenza, ascolto. E tu, se vuoi, mi racconti qualcosa di te. Anche qui, la relazione vince sulla profilazione, la qualità batte la quantità. È un baratto nobile, che ricorda quanto il marketing possa essere anche una forma di alleanza culturale, non solo uno scambio di impression e click. Bisogna fare un passaggio doveroso: la cultura della privacy non è più un tema da addetti ai lavori, ma è parte della sensibilità comune e i brand che cercano scorciatoie ne pagano il prezzo, non solo in reputazione, ma anche in performance.
Il privacy-first marketing impone un cambio di paradigma nella filosofia stessa che guida la comunicazione: il branding torna alla sua essenza originaria, ovvero essere riconoscibili perché affidabili, memorabili perché coerenti E non per essere ovunque, ma per essere dove ha senso. E questo significa riorganizzare l’intera struttura narrativa del marchio: dai messaggi pubblicitari alle call to action, dai flussi di navigazione al linguaggio usato nelle policy, ogni dettaglio concorre a definire l’identità di un brand che vuole abitare lo spazio della fiducia.
Ecco perché oggi, più che mai, non basta aggiornarsi, serve ripensarsi e modificarsi sin dalle intenzioni. E proprio in questa riscrittura complessa, fatta di creatività e compliance, di contenuto e strategia, che diventa fondamentale avere al proprio fianco un’agenzia di comunicazione capace di interpretare il cambiamento. Con la guida giusta, è possibile trasformare ogni limite in un valore nuovo. È in quel “saper come e quando fare silenzio”, in quel gesto di rinuncia consapevole che inizia la reputazione duratura di un brand. Non per la quantità di dati raccolti, ma per la qualità delle relazioni costruite. È lì che inizia la vera fedeltà.
Viviamo in un contesto ormai iper digitalizzato e connesso: basta osservare i display dei nostri smarphone, per vedere tutte quelle iconcine colorate, espressione di una pluralità di canali, piattaforme e vettori di presenza online attraverso cui ormai ci muoviamo quotidianamente. Questa
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