L’arte del “teasing” nei lancio di prodotto

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Certe volte, l’attesa vale più dell’oggetto. No, non è un’esagerazione. È il modo in cui il cervello umano funziona quando si tratta di desiderio. Non basta sapere che qualcosa esiste. Serve sospettare che possa cambiare le regole del gioco. Occorre sentire che si sta avvicinando, ma non vederlo del tutto. Serve immaginarlo. Intuirlo. Desiderarlo ancora prima di conoscerlo. Nel marketing, costruire attesa non è un vezzo creativo ma una strategia sofisticata e si chiama teasing e fa sì che il pubblico si senta parte di qualcosa prima ancora che quel qualcosa venga svelato. Il lancio non avviene tutto in un giorno. È una progressione. Un ritmo narrativo. Un crescendo che accompagna chi osserva dalla semplice curiosità a una vera e propria necessità emotiva. Sì, emotiva. Perché il teasing non parla solo alla mente ma lavora sulle sensazioni. Suggerisce, allude, gioca con le soglie della visibilità. E quando il prodotto finalmente appare, la sensazione è quella di un puzzle che si completa. Vediamo allora quando e perché il teasing funziona, come si costruisce un’attesa efficace e quali sono gli errori più comuni da evitare.

Quando funziona davvero l’arte del teasing

C’è una sottile differenza tra lanciare un prodotto e farlo desiderare e la risposta è una e una sola: le emozioni. Presentare qualcosa al pubblico in modo diretto, persino impeccabile sotto il profilo tecnico, non garantisce alcuna emozione, per l’appunto e senza questa non c’è conversione.

Ma se si riesce a
stimolare l’immaginazione, allora sì, cambia tutto. Il teasing funziona precisamente in questa fessura: tra ciò che si mostra e ciò che si trattiene. E riesce a generare quel magnetismo che fa restare connessi, incuriositi, affamati di sapere di più. Ma non sempre è efficace. E non sempre è il momento giusto per utilizzarlo. Funziona, innanzitutto, quando esiste un’audience già minimamente consapevole. Non serve che conosca il prodotto o il servizio nei dettagli, ma è utile che abbia una familiarità di base con il brand. Il teasing non nasce nel vuoto, ha cioè bisogno di un contesto, anche appena accennato, come un frammento visivo, un suono o una frase sibillina da un marchio che ti è del tutto sconosciuto. Ti incuriosisce? Forse sì, ma quanto basta per continuare a pensare a qualcos’altro. Diverso è se quel frammento arriva da un brand che già segui, o che ha fatto parte della tua esperienza. A quel punto, l’attenzione si attiva. Ma non è solo questione di notorietà. Il teasing funziona quando è inserito in una narrazione coerente. Si parte da qui: ogni elemento che anticipa un lancio deve parlare la stessa lingua del brand, come se ci fosse sempre stato, nascosto in un angolo della storia. È per questo che i teaser più riusciti non cercano di stupire con effetti speciali o colpi di scena forzati. Sono sobri, essenziali, calibrati. Sanno dosare. Sanno quando fermarsi. Un altro fattore decisivo? Il tempo. Non c’è nulla di più fragile dell’attesa se mal gestita. Se si inizia troppo presto, si rischia di bruciare l’interesse. Se si attende troppo, si perde l’onda. Il teasing deve seguire un ritmo, rivelare qualcosa, creare aspettativa, e poi sfiorare la soglia del “quasi”. Quel quasi è ciò che trattiene l’utente sulla pagina, sul profilo, dentro la storia. È una soglia precisa, che detta i confini, poiché troppa anticipazione, e l’effetto sorpresa evapora, mentre il pubblico si allontana, convinto che non ci sia più nulla da scoprire. Non esiste un unico modo di fare teasing e tutto dipende da chi sei e da cosa prometti. Il teaser, infatti, è proprio quella promessa non detta che però mantenuta trasforma un brand in esperienza dove trovare anche il pubblico stesso, con le sue aspettative, i desideri. Però bisogna dirlo con chiarezza, il teasing non è per tutti. Non è per ogni prodotto. Non è per ogni contesto. E soprattutto non è per ogni tipo di brand. Chi non ha ancora una struttura solida, chi non ha investito abbastanza nella propria brand identity o chi lavora senza una direzione chiara, rischia che il teaser venga frainteso, ignorato, o peggio ancora deriso. 

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Come costruire un buon teasing senza cadere nel banale

La prima tentazione, quando si pensa a una campagna di teasing, è quella di complicarsi la vita, magari perché si vuole farcire tutto (e troppo) di effetti speciali, parole enigmatiche, countdown ridondanti. Come se il “non detto” dovesse per forza stupire. E invece no. In realtà, i teaser più riusciti sono quelli in cui tutto sembra semplice, fluido, inevitabile. Ma per arrivarci, dietro c’è un lavoro minuzioso di osservazione, strategia e ascolto, perché non ci si improvvisa registi del desiderio. Ogni buona campagna di teasing parte da una domanda basilare: che tipo di emozione vogliamo evocare prima ancora di mostrare? Perché non si tratta solo di incuriosire. L’anticipazione, quando funziona, è sempre legata a un sentimento più profondo… stupore, nostalgia, senso di urgenza, appartenenza, novità, potere, libertà. Bisogna sceglierne uno, ma non provarli tutti, perché altrimenti nessuna emergerà davvero.

Poi bisogna capire
in che modo accompagnare il pubblico nel passaggio da ciò che sa a ciò che scoprirà. Ecco, il teasing è proprio quel tragitto. Il momento in cui lo spettatore si sente parte del viaggio anche se non ne conosce ancora la meta. È importante costruirlo a tappe, come un racconto visivo e testuale fatto di piccoli indizi coerenti, non isolati l’uno dall’altro. Una strategia efficace è quella possibilmente di suddividere la campagna in micro-contenuti progressivi, come attraverso una parola sola, un’immagine sgranata, un suono, un colore dominante. L’essenziale è che questi elementi siano collegati, così da diventare riconoscibili. Come una firma. A quel punto anche il dettaglio più piccolo assume potenza simbolica e non serve spiegare, basta evocare.

Un altro punto cruciale è il
ritmo e il teaser vive di attese calibrate. Bisogna costruire un crescendo. Come? Partendo da qualcosa di apparentemente insignificante. Una campagna che comincia con una semplice grafica, ad esempio, può poi evolversi in un video, poi in un’animazione breve, poi in una frase detta da una voce nota. Tutto senza mai rivelare troppo, ma aggiungendo ogni volta un tassello. Il pubblico deve riconoscere il marchio anche nel non detto. E che dire del canale? Conta. E tanto anche. Se il tuo pubblico vive su Instagram, una grafica animata con una caption studiata può avere più impatto di un video su YouTube. Il teaser deve adattarsi al mezzo, non il contrario. Ma deve comunque mantenere la sua voce.

Non va dimenticata, poi, la parte “invisibile” del teasing: l’analisi. Ogni passo va osservato, monitorato, misurato. Come hanno reagito le persone al primo contenuto? Dove si sono fermati? Dove hanno cliccato? Hanno condiviso? Si sono iscritti alla lista d’attesa? Tutto questo non serve solo a capire se la strategia funziona. Serve anche a modulare le tappe successive. E, infine, arriva il momento in cui il velo si solleva. Il
reveal. Il lancio vero e proprio. Ecco, ciò che molti dimenticano è che questo momento non deve contraddire tutto ciò che è stato costruito prima. Il prodotto deve essere all’altezza dell’aspettativa. Ma non solo. La rivelazione deve avvenire con la stessa cura narrativa, perché il pubblico che ha seguito il teaser non vuole sentirsi spiazzato. Vuole sentirsi ricompensato. Riconosciuto. Incluso.

Perché non improvvisare quando il primo impatto è tutto

Talvolta però si rischia di sbagliare, di sottovalutare e pensare che “tanto è solo un teaser”. Una manciata di post, qualche frase lasciata a metà, due immagini vaghe e via. Come se il pubblico potesse essere catturato da uno sbuffo d’effetto senza che dietro ci sia un pensiero profondo, una regia, un’intenzione. E invece no. Proprio perché si tratta del primo contatto, della scintilla che dovrebbe accendere la curiosità, la fase del teasing è tra le più delicate. Non perdona pressappochismo. Non ammette soluzioni standard.

L’improvvisazione, in questo caso, è nemica della credibilità. Nessuno vuole sentirsi preso in giro da una campagna che promette molto e svela poco. E nessuno si innamora di un marchio che si nasconde dietro effetti generici. 
Progettare un teaser significa scegliere. Significa porsi nei panni di chi guarda e domandarsi: cosa mi farebbe davvero restare? Ecco perché affidarsi a chi ha esperienza nel costruire narrazioni coerenti, a chi conosce le dinamiche dell’anticipazione e sa renderle funzionali alla strategia complessiva. Una buona agenzia creativa sa riconoscere quando e come dare forma a un linguaggio che non è solo estetico, ma profondamente strategico. E sa soprattutto che, prima ancora delle vendite, vengono l’attenzione e la fiducia.

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