Rebranding post-crisi: gli errori da evitare
Rebranding post-crisi: gli errori da evitare C’è un momento esatto in cui vale la pena
C’è un momento esatto in cui vale la pena di cambiare, perché l’azienda, il suo brand, i valori che fino a ieri erano allineati, d’improvviso non funzionano più. Tutto diventa stantio, scollato dalla realtà e lontano dal linguaggio del pubblico. O addirittura, peggio, qualcosa accade nella quotidianità che interrompe la relazione con il target, il patto di fiducia. Succede ed è una crisi reputazionale. In questo caso, per uscirne migliori, non basta riparare: bisogna rigenerarsi e comunicarlo. Bisogna decidere di cambiare pelle. Veramente.
Chi pensa però che un rebranding post-crisi sia soltanto una questione di logo, di font o di colori, rischia di prepararsi a un secondo disastro, forse ancora più grave del primo. I brand che affrontano una crisi devono sapere che ogni mossa successiva sarà osservata, interpretata, commentata. Superare allora vorrà dire predisporre il brand in maniera autentica a “superare il danno” di identità, riformulando una promessa nuova, che chiede coerenza tra parole e fatti, tra strategia e cultura aziendale. Il primo passo dentro questo percorso è comprendere la natura della crisi. Non tutte le crisi sono uguali: alcune derivano da scandali reputazionali, altre da problemi di prodotto, mancate promesse attese, altre ancora da un customer care distratto. Questo processo di rebranding richiede settimane, talvolta mesi, e coinvolge più di un attore, interno ed esterno alla realtà aziendale. Mai affrettare questo tempo: un cambio frettoloso lascia crepe e disallineamenti, fino a far slittare il cambiamento stesso. Serve informare, motivare e ispirare, perché una crisi non si cancella con un (solo) rebranding: altrimenti il rischio è quello di apparire come chi cambia facciata sotto un vestito di sempre.
La storia recente ci insegna che l’errore più frequente (e anche il più dannoso) è quello di procedere, come anticipato, con troppa fretta, mossi più dalla paura che dalla lucidità. È comprensibile: una crisi spinge ad agire subito, a voler cancellare le tracce, a “mostrare qualcosa di nuovo”. Ma proprio questo impulso immediato, se non governato da una strategia solida, rischia di vanificare tutto il processo.
La fretta
La fretta è il primo e più subdolo dei nemici. È facile innamorarsi di una nuova brand identity perché risulta visivamente fresca, magari coerente con i trend del momento. Ma se non c’è stata un’evoluzione autentica nella cultura aziendale, nelle relazioni con i clienti, nella qualità del servizio o del prodotto, allora ci si troverà di fronte solo una maschera. E le maschere, prima o poi, cadono. Una crisi non si dimentica ma si supera. E serve tempo. Serve soprattutto onestà. Il rebranding efficace non è quello che arriva subito dopo lo shock, ma quello che nasce da un’elaborazione consapevole.
L’incomunicabilità e la chiusura
Un altro errore diffusissimo è pensare che basti cambiare linguaggio per convincere le persone che si è cambiati davvero. Parlare di valori senza incarnarli, promettere un “nuovo corso” senza indicare in che cosa consista, proclamare un cambio di paradigma senza mutare le pratiche organizzative, sono tutti segnali che il rebranding non è un atto di autenticità, ma una strategia di distrazione. E l’incoerenza viene intercettata e punita rapidamente con l’indifferenza, con l’abbandono da parte del target. Altro errore frequente, seppur meno visibile, è la chiusura, quella che molte aziende effettuano, limitando la comunicazione, agendo in modo unilaterale, perché si escludono dal processo di trasformazione i propri dipendenti, gli stakeholder, i pubblici. Eppure, proprio nei momenti di maggiore vulnerabilità, è essenziale aprirsi. Coinvolgere. Ascoltare.
Un rebranding post-crisi non si può decidere da soli in una sala riunioni: va costruito insieme a chi il brand lo vive ogni giorno. Tutti devono sentirsi parte del nuovo inizio. Solo così il cambiamento diventa condiviso, autentico. Le aziende che decidono da sole, nel chiuso di board e comitati direttivi, spesso finiscono per produrre una nuova identità che nessuno sente propria. C’è poi l’errore opposto: quello del rebranding totalizzante, che cancella ogni traccia del passato come se fosse vergogna pura. Questa tendenza all’azzeramento identitario, comprensibile dal punto di vista emotivo, è pericolosa sul piano strategico. Anche dentro la crisi più grave esistono frammenti di valore: storie, relazioni, elementi visivi, intuizioni di brand equity che meritano di essere recuperati e magari semplicemente contestualizzati nuovamente. Per chi guarda dall’esterno, questa cancellazione radicale può sembrare un’ammissione di colpa o, peggio ancora, un tentativo goffo di nascondere.
La mancanza di ascolto
Tutti questi errori hanno un’origine comune: l’assenza di ascolto, il rifiutare il confronto, chiudere le orecchie, concentrarsi solo sulla forma. Ma quello che il pubblico, oggi, riconosce come valore è la capacità di mettere in discussione se stessi. Ecco perché evitare questi errori è una questione di postura culturale. Serve maturità, serve umiltà, serve lungimiranza. Il brand non è una bandiera da issare a ogni cambiamento, ma un organismo complesso, vivo, fatto di persone e relazioni. E solo chi ha il coraggio di rimetterle al centro può davvero rinascere più forte di prima.
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Il valore del rebranding post-crisi si misura sulla fiducia che torna. Ogni sforzo narrativo, dalla presentazione interna all’iniziativa pubblica, deve essere sostenuto da gesti concreti: asset grafici, strategia marketing allineata, team compliance, audit, revisioni organizzative, nuovi leader, report, KPI. Il rigenerarsi del brand si deve vedere in ogni pratica e comunicazione, interna ed esterna.
Ecco perché il rebranding può essere anche il momento opportuno per ridefinire ruolo, valori, visione e voice aziendale, in ogni touchpoint (sito, packaging, social network, newsletter, eventi, ambiente, tone of voice, mercato). Quando si parla di rinascita post-crisi, il rebranding non è semplicemente un’opzione tra le tante, è, spesso, la chiave per dimostrare che qualcosa si presenta sul serio cambiata. È la manifestazione plastica di una trasformazione interiore, un modo per raccontare a pubblici interni ed esterni che l’organizzazione ha compiuto quel passo evolutivo verso un nuova dichiarazione di responsabilità. In questo senso, il rebranding si configura come uno strumento etico prima ancora che comunicativo.
Un brand è, in fondo, una promessa. E quando quella promessa è stata tradita, per un prodotto difettoso, per una crisi interna, per uno scandalo mediatico, serve riscriverla in modo autentico. Continuare come se nulla fosse rischia di rendere il brand autoreferenziale e disallineato rispetto alle nuove aspettative. Il rebranding serve proprio a colmare quella frattura e a cucire di nuovo il tessuto della marca, ma su una nuova base. È una forma di “memoria rigenerativa”: non si cancella ciò che è stato, ma lo si integra dentro un rinnovato e rigenerato percorso di sana rinascita.
In questo senso, questa riprogettazione ha anche una valenza catartica, aiuta l’organizzazione a guardare con occhi nuovi i propri errori, a metabolizzarli e a trasformarli in valore. Aiuta a raccontare il “perché” del cambiamento, offrendo anche un’occasione di verità. Una lente attraverso cui guardare ciò che si è diventati. Un esercizio di lucidità. Si riporta così l’attenzione su di sé. Ma lo fa con una nuova direzione. Una nuova immagine, un rinnovato tono, una narrazione fresca che attirano l’interesse dei media, riattivano la curiosità, invitano il pubblico a guardare con occhi diversi. È un’opportunità preziosa, ma deve essere gestita con cura: ogni scelta comunicativa deve essere allineata alla verità del percorso fatto.
Per questo è importante affidarsi ad un ufficio stampa competente e ben radicato nel territorio del brand, restituendo all’azienda quella rilevanza perduta. Perché quando l’identità di un brand vacilla sotto il peso di una crisi, serve una strategia multicanale che tenga insieme forma e sostanza, messaggio e tono, pubblico e tempistica.
Un piano di comunicazione integrato che non serva solo ad “annunciare” il nuovo brand, ma renderlo comprensibile, desiderabile, coerente.Perché il modo in cui si presenta la nuova identità conta quanto, se non più, dell’identità stessa. E perché, nel branding come nella vita, non importa soltanto ciò che siamo stati, ma ciò che decidiamo di diventare.
Viviamo in un contesto ormai iper digitalizzato e connesso: basta osservare i display dei nostri smarphone, per vedere tutte quelle iconcine colorate, espressione di una pluralità di canali, piattaforme e vettori di presenza online attraverso cui ormai ci muoviamo quotidianamente. Questa
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